Franco Branciaroli, dopo i recenti successi ottenuti con Servo di scena, Il Teatrante e Don Chisciotte, continua la sua indagine sui grandi personaggi del teatro portando sulla scena Enrico IV. In questo capolavoro pirandelliano (del 1922, ma potrebbe essere stato scritto oggi) un uomo caduto rovinosamente da cavallo durante una festa in maschera, impazzisce e si identifica con il personaggio di cui portava il costume: Enrico IV, per l’appunto.
Passati gli anni, attorniato dalla servitù di casa che egli stesso obbliga a travestirsi per simulare la vita del XII secolo, d’improvviso rinsavisce; scopre che la donna che ha sempre amato, Matilde, ha sposato il suo rivale in amore, Belcredi, e decide di sprofondare per sempre nella pazzia, unica possibilità rimastagli per vivere, nell’impossibilità di adeguarsi ad una realtà che non gli si confà più. La scelta di Enrico IV (del quale mai ci viene rivelato il vero nome) di sprofondare per sempre nella follia è più vicina a ciascuno di noi di quanto non si pensi. Cerchiamo continuamente di difenderci dal flusso incessante e dalla scandalosa novità della vita dandoci un atteggiamento, assumendo un ruolo, congelando il mutamento in forme risapute e rassicuranti. Ma dove sta, poi, se c’è, la nostra identità?
Enrico IV è l’ultima grande figura scelta da Branciaroli per la sua indagine sul rapporto tra attore e personaggio, e riassume in sé l’interrogativo finale: può l’arte sostituirsi alla vita? La risposta di Pirandello è la cifra di tutta la sua opera: sì, poiché senza l’artificio (la maschera) la vita stessa non potrebbe essere vissuta.